Il fabbisogno economico per il ricambio generazionale in Medicina generale
Si parla tanto di carenza di medici di medicina generale, di imbuto formativo e di “camici grigi”, ma le uniche soluzioni messe in campo ad oggi – attraverso gli emendamenti al dl Rilancio – vanno tutte nella direzione di creare di scorciatoie, percorsi paralleli e sanatorie per l’accesso al corso di formazione (come gli emendamenti non segnalati, a firma degli Onorevoli Giulia Grillo, Manuel Tuzi (5stelle) e Rizzo Nervo (PD), oppure vanno nella direzione di creare un ulteriore canale di accesso, questa volta universitario, a firma dell’Onorevole Lapia (5 Stelle, emendamenti 5.5 e 5.6 segnalati e al voto martedì 16 giugno).
Se i primi quantomeno facevano rientrare il discorso all’interno dell’attuale corso di formazione, gli emendamenti che verranno discussi lunedì e votati martedì aprono al “doppio canale” di accesso alla professione di medico di famiglia, introducendo un percorso universitario attraverso l’attuale scuola di specializzazione in Medicina di Comunità e Cure Primarie e una sbrigativa modifica alla 368/99.
Una sanatoria di stampo quindi baronale, imposta senza un confronto condiviso fra tutti gli stakeholders, tanto improvvida e incauta che espone il Paese a una stagione di ricorsi (costi indiretti) e di spesa diretta, che non sono affatto indifferenti.
Per inquadrare cosa comporterebbe un cambiamento del genere, non si può non partire da quanto attualmente spendiamo per la formazione in medicina generale, ma quanto soprattutto dovremo ancora spendere per tenere in piedi il sistema cure primarie o per meglio dire l’assistenza sanitaria di base, a fronte dei pensionamenti dei medici di famiglia da qui ai prossimi dieci anni.
Da questa esigenza nasce e si sviluppa lo studio sul “Fabbisogno economico per il ricambio generazionale in medicina generale”, in cui vengono analizzati passo dopo passo tutti i meccanismi di controllo economico del Finanziamento vincolato per la Formazione in Medicina Generale, proiettati su quel periodo di dieci anni, in cui avremo bisogno di almeno 2000-2500 borse di formazione all’anno, tale è infatti il “fabbisogno di medici di famiglia”.
Ebbene i conti sono presto fatti e le proiezioni di spesa mostrano un segno negativo medio di 30/40 milioni di euro all’anno (a seconda dei costi di organizzazione dei corsi rispetto a 2000 o 2500 borse di formazione). Mantenendo l’attuale dotazione finanziaria di 48,735 milioni di euro, il saldo negativo arriverebbe a oltre 8000 medici di famiglia in meno.
E per la formazione universitaria? Non è difficile capire dove il legislatore abbia intenzione di andare introducendo il secondo canale universitario di accesso alla professione. Verosimilmente il corso di formazione regionale verrebbe in qualche modo messo da parte, ma nella sostanza dal punto di vista economico cambierebbe poco. Uno specialista in Medicina di Comunità e Cure Primarie costa allo stato più di 100.000 euro a fronte dei 35.000 di una borsa di formazione regionale.
A meno di non voler tentare di privatizzare l’assistenza sanitaria di base sulla scorta del modello lombardo, a mio avviso fallimentare, e tenendo a mente le esigenze di ricambio, i costi di questa operazione salirebbero a oltre 130 milioni di euro all’anno di differenza (1,3 miliardi in 10 anni quindi) ma soprattutto aprirebbero a una serie di ricorsi – già veramente in piedi attraverso gli avvocati della Consulcesi – sull’equiparazione delle borse di formazione regionali a quelle universitarie. Secondo la Consulcesi infatti, ad ogni medico diplomato spetterebbero fino a 50.000 euro per ogni anno di formazione (fino a 150mila euro quindi), il che significa, andando a ritroso dall’istituzione del corso di formazione e stimando il numero di diplomati fino ad oggi, che i ricorsi costerebbero allo stato fra i 700 milioni e i 2 miliardi di euro, senza contare poi i costi amministrativi universitari per l’istituzione e il potenziamento della nuova scuola di “Medicina Generale di Comunità e Cure Primarie”.
L’Associazione ALS crede fortemente che la formazione dei medici di famiglia debba rimanere nel territorio e non nelle aule universitarie, che debba essere rilanciata nei suoi contenuti e nella sostanza attraverso l’introduzione di tirocini professionalizzanti negli ambulatori dei medici di medicina generale, attraverso meccanismi di incentivo allo studio come “bonus per la formazione in diagnostica di primo livello” (con fondi già individuati all’interno del meccanismo di finanziamento che tuttora vengono dispersi), recuperando i fondi delle borse abbandonate, i quali vengono depositati ogni anno nelle casse delle regioni ed implementando quel processo di formazione-lavoro già introdotto dal “dl semplificazione”, con sblocco dei massimali, laddove il formando sia inserito in un’organizzazione complessa, come una medicina di gruppo, seguito da un medico senior o da un “pre-pensionando” (vedasi proposta Enpam per la pensione part-time).
Tutte misure che necessitano di bassi costi (30/40 milioni di euro all’anno aggiuntivi per le borse) ma soprattutto di una politica che non cerchi continuamente di mortificare l’entusiasmo dei giovani attraverso le sanatorie o di utilizzare la formazione universitaria come “Cavallo di Troia” puntando alla dipendenza, delle cui implicazioni, anche in termini economici, nessuno si ancora posto il problema.