Esiste la fuga dai pronto soccorso, questi hanno perso di attrattiva e si è creata una falla che non può e deve essere riparata dallo spostamento di altre figure mediche non adatte
La carenza di camici bianchi colpisce più forte in Pronto soccorso: sono circa il 30% gli specialisti in Emergenza-Urgenza mancanti secondo i dati Simeu (Società italiana medicina Emergenza-Urgenza) del 2022. Per un Sistema sanitario come quello italiano, che basa sui PS la prima accoglienza dei pazienti, viste le difficoltà spesso riscontrate sul territorio, è un problema che ha bisogno di una risoluzione immediata. Il governo sta puntando sulle nuove risorse, ampliando i posti a Medicina e nelle specializzazioni successive.
Eppure, la specializzazione in Emergenza-Urgenza nel 2022 ha visto “non affidato” il 50% dei contratti (dati Anaao-Assomed) perché i neo-medici sanno quanto è complesso lavorare in PS e la rifuggono come prima esperienza.
Nel frattempo, le dirigenze ospedaliere cercano disperatamente una soluzione alle figure mancanti e la trovano, sempre più spesso, in alternative al limite. La prima è quella che Salvatore Manca, presidente SIMEU, ha definito “la scorciatoia pericolosa”. Le cooperative e i “medici a gettone”, che accettano di coprire turni in Ps che altrimenti la carenza avrebbe lasciato vuoti sovraccaricando i colleghi presenti.
Queste cooperative offrono sì medici, ma raramente la specializzazione è quella di Emergenza-Urgenza o una equipollente. Corroborando la falsa credenza che le specializzazioni mediche possano tutte ugualmente lavorare in Pronto Soccorso.
Allo stesso modo, nella seconda soluzione, i dirigenti trasferiscono altri professionisti dai loro reparti in Ps per coprire una falla. Spesso con specializzazioni, anche in questo caso, non adatte all’incarico: come oculisti o pediatri.
Carenza medici in PS: le soluzioni
“Il Pronto soccorso ha perso attrattiva – spiega l’avvocato Francesco Del Rio, partner di Consulcesi & Partners – per almeno tre motivi: primo, c’è una turnistica stressante causata proprio dalla mancanza di personale; in secondo luogo, parliamo di strutture problematiche, in cui si lavora in urgenza, e dunque molto più difficili da gestire rispetto a qualsiasi altro reparto; in ultimo, c’è un rapporto diretto con il pubblico, il che significa che si ha a che fare non solo con i malati ma anche con famiglie e conoscenti. Può dunque accadere, come purtroppo succede di frequente, di subire aggressioni”. Lavorare al Pronto
soccorso, dunque, “significa andare in trincea, in prima linea”. Con tutto ciò che ne consegue.
“Dal punto di vista organizzativo – spiega ancora l’avvocato del Rio –, il direttore generale e il direttore sanitario di una struttura devono, per forza di cose, far fronte alle necessità che vengono a crearsi: non possono, ovviamente, chiudere il Pronto soccorso per mancanza di personale. Chiedono dunque turni di reperibilità attiva, oppure vengono direttamente inseriti nella turnazione del PS, ai professionisti già impegnati in altre aree”. E, fin qui, niente di strano. Si tratta di una pratica lecita che può effettivamente contribuire a tamponare le carenze, a fronte però di un aumento dell’orario di lavoro di questi medici.
“Fintanto che vengono spostati in Pronto soccorso medici che hanno specialistiche affini o equivalenti ai colleghi che ci lavorano, l’ordine di servizio potrebbe ritenersi sostanzialmente legittimo. Il problema nasce quando vengono chiamati specialisti che non hanno queste affinità”. Ciò significa che vengono dirottati al Pronto soccorso anche pediatri, otorinolaringoiatri e così via per fare un “lavoro per il quale non sono pagati e neanche formati”.
Gli interventi del Consiglio di stato e del Tribunale di Sassari
La pronuncia del Consiglio di stato n.04881 del 10 settembre 2021 ha sancito un principio molto importante per il personale sanitario, all’epoca alle prese con l’emergenza pandemica da Covid-19. Gli operatori non possono essere adibiti a prestazioni che esulano dalla specializzazione conseguita. “Questa pronuncia – spiega l’avvocato Marco Croce, anch’egli della rete di Consulcesi & Partners – ha rafforzato il principio della corrispondenza tra assegnazione d’incarico e specializzazione del professionista”.
Sulla stessa lunghezza d’onda una successiva sentenza del Tribunale di Sassari (n.374 del 2021), la quale “riafferma che le guardie interdivisionali sono ammesse per aree omogenee”. Si fa inoltre riferimento al fatto che “la materia è regolata dalla contrattazione collettiva, dal Codice civile e dalla normativa sulla sicurezza negli ambienti di lavoro. C’è poi da aggiungere che la materia è stata regolamentata anche dalla Legge n.24 del 2017, relativa alla sicurezza delle cure e alla responsabilità sanitaria: se vengono abilitati medici o altri professionisti sanitari alla realizzazione di prestazioni per cui non hanno competenze specifiche, saltano anche le procedure di sicurezza sulla erogazione standardizzata delle cure, così come i
criteri di Risk Management. Si tratta dunque di pratiche da gestire con profonda attenzione”.
“In questa sentenza – continua l’avvocato Croce – si afferma che vanno sempre coordinate, in ambito di pubblico impiego sanitario, sia la disamina delle norme della contrattazione collettiva che la disamina delle norme di legge cogenti. Il contratto collettivo stabilisce in più parti che i servizi di guardia non possono essere svolti in casi espressamente previsti e, già questo, è un chiaro limite ordinamentale. Ricordiamo che la contrattazione collettiva viene svolta tra una parte pubblica, l’Aran, e le rappresentanze sindacali dei professionisti sanitari dipendenti pubblici. Si tratta dunque – spiega – di una fonte normativa tutt’altro che avulsa dal contesto delle leggi e delle norme, imperative e inderogabili, perché è a tutela della collettività.
Per altro verso, ho apprezzato il coordinamento della materia, e quindi la limitazione alle attività tipiche del profilo specialistico di appartenenza, anche nelle disposizioni di servizio concernenti le guardie interdivisionali, in quanto esistono gli obblighi di cui l’articolo 2087 del codice civile sulla salvaguardia dell’integrità dell’operatore della salute dipendente pubblico che non può essere adibito ex abrupto in maniera sregolata a svolgere attività riservate a colleghi aventi ben altra specializzazione. E ancora – aggiunge l’avvocato Croce –, la sicurezza negli ambienti di lavoro pone un perimetro di salvaguardie che non possono a loro volta che essere demandate all’attuazione standardizzata e affidabile di professionisti
operanti in quel campo e in maniera strettamente abituale. Quest’insieme di norme coordinate, evidenziate dalla giurisprudenza anche di merito, ci fanno comprendere che speciali servizi di diagnosi e cura, anche a carattere interdisciplinare, non possono che essere demandati a professionisti in grado in via ordinaria di rispondere alle esigenze assistenziali di volta in volta considerate”.
Malpractice in un reparto non di competenza: cosa succede
Cosa accade, dal punto di vista assicurativo, quando un episodio di malpractice avviene in una situazione in cui il professionista viene messo in un reparto che non è di sua competenza? “Trattandosi di dipendenti – spiega l’avvocato Del Rio –, ne risponde la struttura. Il problema, però, è che se per l’eventuale danno a terzi a pagare sarà la struttura, resta il fatto che il professionista si è preso in carico un’attività che sa di non poter svolgere. Questo potrebbe avere concreti riflessi negativi in termini di incriminazione penale, da cui il
sanitario non potrebbe certo liberarsi soltanto sostenendo di aver eseguito quanto richiesto dall’azienda. Inoltre, in caso di un’azione contabile per danno erariale, questi può sostenere, legittimamente, di aver rispettato l’ordine ricevuto, ma la condotta tenuta nel caso concreto, ancorché rispetto ad un caso estraneo alla propria competenza, verrebbe comunque vagliata con attenzione dagli organi contabili per rilevare un eventuale profilo di colpa grave. I rischi dunque restano”.
È evidente quindi che abbiamo un “problema enorme di appropriatezza delle cure”, ovvero un “principio cardine” della legge Gelli-Bianco sulla responsabilità professionale degli esercenti la professione sanitaria.
“Il paziente ha diritto a cure appropriate ma ciò potrebbe non avvenire in casi del genere”. Questo mette dallo stesso lato della barricata sia cittadini che medici: “Se un paziente ha un problema e il professionista non ha le competenze necessarie per risolverlo, allora entrambe le parti vengono danneggiate e corrono rischi molto seri. Oggi la medicina è specialistica e nessun medico è attualmente in condizioni di saper fronteggiare qualsiasi situazione. Ho parlato personalmente – spiega l’avvocato Del Rio – con decine di medici a cui ciò è successo e sono letteralmente terrorizzati. Fatto, questo, che comporta anche un alto
rischio di burnout”.
Come può agire il professionista?
Ma cosa può fare un medico di struttura che, nonostante sia privo delle competenze necessarie, viene spedito al Pronto soccorso per coprire qualche buco di personale? “L’avvocato verifica, prima di tutto – conclude Del Rio – che tipo di ordine hanno ricevuto e con quali modalità sono stati istituiti questi servizi di guardia attiva. A quel punto, se esistono i presupposti, ovvero se sono medici che non hanno affinità o equipollenza con il Pronto soccorso, è possibile predisporre una lettera di contestazione dell’ordine di servizio, a livello stragiudiziale, per chiederne la revoca, in quanto i soggetti non hanno affinità specialistica
per andare a lavorare lì, salvo poi impugnarlo giudizialmente qualora ne ricorrano i presupposti per l’annullamento”.
Consulcesi – Massimo Tortorella